Le prime comunità cristiane

La storia del cristianesimo è la storia di fatti e persone, come tale, è caratterizzata da luoghi e momenti precisi, perché la storia di ognuno di noi è scandita in luoghi e momenti diversi che si manifestano nella nostra vita. Gli apostoli ed i discepoli, dopo un comprensibile momento di smarrimento, di fronte alla scomparsa di Colui con il quale avevano condiviso la vita per circa tre anni, verificato, con i propri sensi che le promesse fatte dal Maestro erano state mantenute (Egli non si era definitivamente allontanato, non li aveva abbandonati), continuano a vivere in comunione, intorno alla Madre di Gesù, prima, e, successivamente, intorno ai primi che Lo avevano seguito, consapevoli, fin dall’inizio, che solo attraverso la loro unità Egli continuava a vivere. Le notizie circa questa prima comunità ci sono date dagli Atti degli Apostoli, scritti da S. Luca, il quale, oltre a riportare racconti uditi dagli stessi apostoli, vive in prima persona quella vita (egli, infatti, è compagno di Paolo quando questi giunge a Roma per la prima volta). Luca ci riferisce che “…erano assidui nell’ascoltare… gli apostoli, nella frazione del pane… stavano insieme, frequentavano il tempio e spezzavano il pane in casa…”. Apprendiamo che, fin dall’inizio, la comunità si raccoglie intorno a coloro che riteneva essere l’Autorità, e, più in particolare, Pietro, designato direttamente da Gesù per rappresentarlo, quale Suo prolungamento; già in Gerusalemme, e prima della grande diffusione, esiste un nucleo istituzionale, successivamente, le comunità sparse intorno saranno rette da anziani scelti con il consenso degli apostoli, i Presbiteri, prima, i Vescovi, dopo, con i Diaconi, che collaboravano con questi. Si distingue la particolare autorità di Pietro, che è il punto di riferimento quando deve essere scelto il sostituto di Giuda, o anche nelle questioni amministrative (come nel caso di Anania e Saffira, i coniugi che, entrati nella comunità, avevano omesso di conferire tutti i loro beni), ed è a Lui che si farà riferimento, per l’ammissione dei non ebrei al cristianesimo. Si ricorda, infatti, che la prima conversione pagana, quella del centurione Cornelio, avvenne ad opera di Pietro, che si recò nella sua casa, invitato, con perplessità da parte di tutti. Fin dai primi momenti, però, la vita per i discepoli di Cristo diviene avventurosa, essi devono essere prudenti, per evitare reazioni da parte dei Giudei; è datato al 34 il martirio di Stefano, un Diacono, lapidato dai Giudei, e, tra questi, da quel Saulo, che diventerà “Apostolo delle Genti”. Stefano fu oggetto di un linciaggio popolare, seppur “tollerato” dai sacerdoti, che sapevano bene di non avere il potere di eseguire condanne a morte (in quell’occasione, Caifa venne destituito). Si trattò, comunque, secondo il diritto romano, di un abuso, tanto è vero che, dopo la condanna a morte di Giacomo Minore e di altri cristiani, nel 62, ad opera dei sommi sacerdoti, Ananos fu destituito. Egli aveva approfittato di un momento di “vacanza” del governo romano nella provincia (era morto Porzio Festo e non era stato ancora sostituito), per eliminare qualche scomodo cristiano, ma l’atteggiamento dello stato romano, nei confronti di questi primi non fu mai di aperta intolleranza. Addirittura, è del 35, il famoso senatoconsulto di Tiberio, il quale, probabilmente non per simpatia, ma solo per il suo profondo senso religioso, e per tentare di metter pace in una provincia bellicosa, chiese di riconoscere il cristianesimo alla stregua di tutte le altre religioni “lecite”. Nonostante il parere contrario del Senato, Tiberio, che secondo Tertulliano e Giustino, aveva ricevuto da Pilato, una relazione sulle vicende di Gesù, pose comunque il veto ad eventuali accuse contro i cristiani. E’ ormai ritenuto vero dalla maggior parte degli studiosi, che l’atteggiamento del governo romano, nei confronti della nuova “setta”, fu tollerante, almeno fino al 62 – 64. E, anche nelle vere e proprie persecuzioni, a cominciare da quella di Nerone, l’accusa, nei confronti dei cristiani non fu politica, ma religiosa, essi, cioè, non adorando gli dei tradizionali, e non adorando l’imperatore, si rendevano rei di “superstitio illicita”, cagionando l’ira degli stessi dei contro l’impero. Solo al tempo di Marco Aurelio, quando il Montanismo diffuse tra i cristiani atteggiamenti di rifiuto dello stato e di aperta provocazione, il cristianesimo fu ritenuto un pericolo vero e proprio per l’impero. Anche quando, nel 49, con un editto, furono espulsi gli ebrei da Roma, il provvedimento, secondo la studiosa Marta Sordi, non riguardò i cristiani (a seguito di tale editto, Prisca e Aquila, ebrei, si rifugiarono a Corinto, dove presero contatti con Paolo). Svetonio riporta di tumulti tra i Giudei “impulsore Chresto”, ma non è certo si tratti di Cristo (Sordi). Una vera e propria persecuzione, in Giudea, fu subita dalla Chiesa nel periodo in cui la regione fu affidata ad un re locale, Erode Agrippa I, e sottratta al governo romano; Erode ne approfittò, fece uccidere Giacomo, e “visto che ciò era gradito agli ebrei, fece arrestare Pietro”. Nel 42 è collocato l’arrivo di Pietro a Roma (Eusebio, Papia di Gerapoli, Clemente di Alessandria), ed è da ritenere che già vi fosse, in quella città, qualche cristiano. La cosa non ci deve meravigliare, per due ordini di ragioni: le vie di comunicazione, nell’impero romano, erano efficacissime e veloci; inoltre, molte persone si avvicendavano sia in Palestina, sia a Roma, e molti potevano aver avuto contatti con i cristiani. Fin dal primo momento, infatti, l’avvenimento di Cristo veniva reso presente attraverso dei semplici rapporti di frequentazione e di amicizia, più che attraverso una propaganda fatta di predicazioni. Chi veniva in contatto con i primi, coglieva in essi la verifica di una letizia, una vita piena, e più umana, pur nelle incombenze quotidiane. Emblematico della vita dei primi cristiani, è la descrizione che ne fa la lettera di un anonimo del II secolo ad un certo Diogneto. Pietro prende contatti con persone di ogni ceto sociale, ma viene prevalentemente ospitato da persone altolocate, addirittura da membri della famiglia imperiale. Pare, infatti, che sia stato subito ospite di Marcello, vicino alla famiglia di Claudio, che era stato conosciuto in Palestina, allorquando aveva sostituito Pilato a Gerusalemme. Nella lettera ai Romani di Paolo, è dato individuare almeno cinque gruppi di fedeli, gruppi eterogenei, ebrei, pagani, ricchi e poveri. E’ di questo primo periodo di Pietro a Roma, l’episodio narrato da Tacito negli “Annali”, relativo al processo maritale di Pomponia Graecina, imparentata con la famiglia di Tiberio. Intorno al 42, questa matrona romana aveva mutato la sua vita, non potendo più provare alcuna gioia nella vita scostumata e pretenziosa della nobiltà, ella venne condotta dinanzi al Tribunale del marito, riscoprendo così, di fatto, una figura giuridica ormai in disuso, per “superstitio illicita”; ella, cioè, non si abbandonava più, come le altre nobili romane dell’epoca, al culto anche sfrenato, dei riti religiosi pagani, conducendo una vita dimessa. Si ritiene che Pomponia avesse conosciuto lo stesso Principe degli apostoli. Emblematico anche il caso relativo alla visita di Paolo e Barnaba a Cipro, invitati dal Proconsole Sergio Paolo, dato riportato negli Atti e confermato da una recente scoperta archeologica. Paolo e Barnaba si trattengono presso Sergio Paolo, stringono un vero e proprio rapporto di amicizia e, sempre scoperte archeologiche recenti, attestano la presenza di una «domus ecclesia» in casa dello stesso Proconsole (la tradizione vuole che in seguito a questa amicizia Saulo prendesse il nome di Paolo). Nelle sue lettere ai romani, Paolo si rivolge a persone ben definite, conosciute, dapprima solo indirettamente, poi di persona. Si tratta di gruppi di amici che si riuniscono in case messe a disposizione dalle famiglie più facoltose, le «domus ecclesiae», o chiese domestiche, sulle quali, successivamente, sono state erette delle vere e proprie chiese. Il metodo, il modo di trasmissione della fede, non è altro che la vita normale di uomini e donne, che si sono imbattuti in altri uomini e donne, per “caso”, sperimentando una felicità vera. Non crediamo affatto al fascino della moralità espressa, secondo alcuni, dai primi cristiani: la novità del cristianesimo non è data affatto dai costumi, o dai diversi usi, ma dalla sperimentazione, nella vita quotidiana, di una pienezza di umanità (Socci). Essi mostrano di aver incontrato il senso di ogni cosa, il giusto significato di tutto, attraverso una Persona. Tra le domus ecclesiae, la casa del Senatore Pudente (divenuta Chiesa di Santa Pudenziana, dal nome di una delle figlie del senatore); la casa di Prisca e Aquila sull’Aventino (Socci), gli amici di Paolo a Corinto (divenuta Chiesa di Santa Prisca); la casa dove alloggiò per circa tre anni Paolo, agli arresti domiciliari, lungo il Tevere, e dove si intratteneva con gli amici, soprattutto ebrei del quartiere; qui si rifugia lo schiavo Onesimo, fuggito da Filemone (divenuta chiesa di S. Paolo alla Regola). Le testimonianze letterarie su tali case domestiche sono state, recentemente, confortate dagli scavi archeologici (gli scavi sotto la Chiesa di Santa Pudenziana hanno rivelato una dimora signorile che dalla tarda età repubblicana resistette fino all’epoca di Nerone). Il comportamento dei cristiani è, anche alla luce della testimonianza della lettera a Diogneto, ed all’atteggiamento di Pomponia Graecina, che giustifica il suo cambiamento di vita con un lutto familiare, molto riservato; si riuniscono per la celebrazione dell’eucaristia, per ascoltare le parole degli apostoli, o dei loro testimoni, vivendo, anche sacramentalmente, ciò che anche noi, oggi, viviamo nella Chiesa. Da Tertulliano apprendiamo che, fin dal primo momento, fondamentale per la loro vita, era l’incontrarsi per celebrare l’eucaristia, per istruire i catecumeni prima del battesimo, e per fare penitenza prima di spezzare il pane. Fin dai primi tempi, le comunità erano rette dagli anziani, che, chiamati vescovi più tardi, avevano come punto di riferimento ultimo, a partire dal secondo secolo, il Vescovo di Roma, come immediato successore di Pietro. E’ emblematico il caso della diatriba sui cosidetti “lapsi”, coloro che, per timore, avevano abiurato la loro fede, e intendevano tornare in seno alla comunità: nella controversia tra due vescovi africani, fu demandata la soluzione al Papa Cornelio, e la sua decisione definì la questione, una volta per tutte. Una continuità, quindi, nella vita della Chiesa, mai interrotta, nel metodo e nella sostanza, laddove lo stesso metodo, l’incontro personale, diventa vita vera. Non sono certamente perfetti, sono uomini normali, tra loro nascono invidie, rancori, come in tutti gli uomini normali, anche se certa cinematografia ci fa vedere persone quasi beote, con un sorriso stupido sempre stampato sul volto, possiamo affermare che l’idillio, la poesia, è astrazione, la realtà è quella trasmessaci dalle lettere, dalle testimonianze letterarie, e dai dipinti rinvenuti nelle catacombe e nelle chiese domestiche. Le eresie trovano spazio fin dai primissimi anni, tentativi di purificazione, o, semplicemente, tentativi di “dare la propria personale impronta” ad una fede che non si fonda su di una idea o una filosofia, ma su una persona. Dice bene Peguy, il quale definisce il cristianesimo come una catena di umanissimi e imprevisti incontri, sempre così ci si imbatte nel fatto cristiano, indipendentemente dalle proprie origini, dalla propria indole, o idea religiosa. Fino al 64, anno dell’incendio di Roma, non si assiste a vere e proprie persecuzioni, ma, con Nerone, i cristiani vengono accusati di ogni turpitudine, e, soprattutto, di “odio humani generis”, per non adorare gli dei propizi all’impero. Il martirio di Pietro è collocato in questo periodo. La colpa di cui i cristiani sono incriminati, secondo Svetonio, è quella di “superstitio illicita”, come Pomponia Graecina, una superstitio che però comportava sempre secondo Svetonio, la commissione di “flagitia”, atti malefici (oscenità, incesti, così i pagani interpretavano l’eucaristia ed il fatto che tra di loro si chiamassero fratello e sorella). In realtà, questi uomini che sembravano essere contenti senza dedicarsi a divertimenti sfrenati, erano oggetto anche di scherno (a Pompei, è stato ritrovato un graffito che denomina i cristiani “saevi solones”, sapientoni dalla faccia scura, e anche Pomponia Graecina era additata per la sua vita dimessa). Gli Imperatori della dinastia dei Flavi, e, più in particolare, Tito e Vespasiano, ebbero modo di conoscere i cristiani in Palestina, e, probabilmente, li frequentarono, addirittura molti dei loro familiari lo divennero (Flavio Sabino, fratello di Vespasiano, Flavio Clemente e Flavia Domitilla, il membro dell’aristocrazia Acilio Glabrione, tutti perseguitati, più tardi da Domiziano, nel 95). Domiziano rinfacciava a Domitilla e Flavio Clemente, suo marito, di essere atei, di non adorare più gli dei tradizionali, stessa accusa toccò a Acilio Glabrione (notizie tratte da Dione). L’avvento di Nerva e Traiano apre un periodo di tranquillità e prosperità, anche se continuano le persecuzioni, soprattutto nelle provincie, su accusa di singoli ebrei o pagani; è del 111-113, il famoso rescritto di Traiano, la risposta che l’imperatore fornisce al governatore della Bitinia, Plinio, il quale si chiedeva come comportarsi con i cristiani accusati, ma verso i quali non riteneva vi fossero veri e propri reati da imputare. Traiano permette l’assoluzione degli apostati, suggerendo di chiedere loro non se fossero mai stati cristiani, ma se lo fossero attualmente; ma, soprattutto, vieta il perseguimento d’ufficio. Antonino Pio si attenne alle norme dei suoi predecessori, ma, almeno nel caso di Policarpo, vescovo di Smirne, la norma fu violata: Policarpo fu condannato, a seguito di pressioni da parte della folla inferocita, solo in quanto cristiano. Con Marco Aurelio, per la prima volta, la filosofia stoica si innesta al potere; egli rimane indifferente alla nuova setta, fino all’impatto con il fanatismo montanista, che vietava ai cristiani di prendere parte alla vita politica, pubblica, e di combattere. Si trattò di un equivoco, perché la Grande Chiesa combattè questa vera e propria eresia, come attestano le apologie di Atenagora di Atene, Melitone e Milziade. Con Commodo, ebbe fine la persecuzione, e i rapporti furono aperti e tolleranti. L’episodio del Papa Vittore e di Marcia si colloca in questo contesto. Solo con Decio, intorno al 249, si assiste ad una ulteriore persecuzione, molto cruenta e feroce, con veri e propri massacri, così come con Valeriano; ma qui siamo in piena crisi politica e economica, i barbari sono alle porte, la peste decima le città, la carestia spopola le campagne, e il popolo accusa i cristiani anche di questo. Valeriano ne riconosce l’illiceità, mentre, con Gallieno, le comunità divenivano soggetti di diritto, ed ai Vescovi, era riconosciuta l’autorità e venivano restituiti i beni confiscati. La pace dura fino alla tremenda persecuzione di Diocleziano, che, nel suo delirio di restaurazione delle tradizioni, sobillato dai Sacerdoti pagani, ritenne i cristiani, soprattutto quelli della classe senatoria, colpevoli di ateismo e di lesa maestà. Ma, fin dall’inizio, i cristiani, da un lato per assicurarsi uno spazio di libertà, dall’altro per sottolineare l’assoluta novità della loro esperienza, usavano gli strumenti giuridici messi a disposizione dall’ordinamento romano statale; innanzitutto, il “collegium religionis causa”, una sorta di figura associativa, attraverso la quale essi aprivano e gestivano scuole, ospedali e banche. Identica cosa accadeva nel linguaggio usato (Ecclesia). I primi, pur stretti intorno al tesoro che ciascuno di essi aveva avuto la fortuna di incontrare, vivono immersi nel mondo, conducendo una vita ordinaria, seppur diversa, più piena; perfettamente integrati, secondo la studiosa Marta Sordi, nella vita civile, militare e politica. Non si preoccupano di distruggere l’istituto della schiavitù, per esempio, ma Paolo, rimandando Onesimo a Filemone, suo “padrone”, dopo la fuga, lo definisce “fratello”, né si preoccupano di riformare i costumi. Essi rispettano l’imperatore, le leggi, ben sapendo che non sono le battaglie di idee a cambiare l’uomo, ed a renderlo felice. Anzi, consapevoli che, per poter liberamente incontrare altri uomini, era necessario rispettare chi aveva il potere; la comunità cristiana, nella sua libertà e autentico realismo, non disdegnò la protezione politica, le donazioni, tutte le forme di tutela loro concesse. Il rapporto con lo stato è stato sempre improntato ad un pragmatismo, che nasce dal sano realismo; solo quando gli imperatori hanno preteso di inteferire nelle questioni di fede, imponendo il culto e l’adorazione alle loro persone, scattava l’opposizione, il rifiuto drastico. I martiri sono, pertanto, persone che, ben consapevoli del loro vero bene, vanno incontro alla morte più atroce, non come “fanatici” (così definiti da certa storiografia), ma come chi, dopo aver sperimentato il centuplo sulla terra, va incontro alla felicità senza fine. Abbiamo numerose testimonianze dagli atti dei martiri, soprattutto dalle lettere che Ignazio di Antiochia, nel viaggio verso Roma, in catene, scriveva alle comunità che incontrava sul suo cammino. Fanciulle giovanissime, bambini, donne e uomini di ogni rango, ci hanno lasciato commoventi testimonianze e accanto alle loro tombe sempre i fedeli hanno continuato a voler farsi seppellire. Le catacombe, infatti, non erano, come comunemente si crede, il luogo di ritrovo dei cristiani, ma semplicemente, i cimiteri, messi a loro disposizione, spesso insieme ai pagani, per seppellire i “loro” amici. Famoso, il terreno donato dalla nobile Domitilla, oggi catacomba visitabile, presso il quale spesso i cristiani si ritrovavano per venerare i morti, i santi, e anche per celebrare l’eucaristia. Del realismo cristiano è testimone la reazione di Agostino, Vescovo di Ippona, allorquando apprende che i barbari sono alle porte (Socci). Il suo distacco nasce dal fatto che qualcosa d’Altro riempie la sua vita, qualcosa, o meglio Qualcuno reale e concreto, che non gli può essere tolto da rivolgimenti politici, che dà gioia e senso anche alla fine di un mondo. Identico realismo soggiace al comportamento “politico”, improntato ad una “Libertas ecclesiae”, che è cosa ben diversa da una semplice libertà religiosa, o libertà di associazione (la stessa differenza che passa tra un’idea ed un fatto); è molto di più: essi, essendo soddisfatti del continuo dono di Grazia, e dalla felicità che Cristo dà loro, vogliono semplicemente goderselo.

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